“Ho schioccato poco poco la lingua, e rivolto al cielo, in cui probabilmente c’era un dio malvagio, ho sputato”.
L’efficacia di uno scritto sta spesso nella sintesi. In particolare, se quello che si desidera comunicare è un’opinione, un’idea, su un altro scritto. Cercando una parola che potesse descrivere “Io Codardo Guardavo il Cielo”, libro di Misumi Kubo del 2010, vincitore nel 2011 dello “Yamamoto Shūgorō”, premio che vuole celebrare annualmente un’opera letteraria considerata esemplificativa dell’arte letteraria e che porta il nome del celebre romanziere che ispirò con le proprie opere registi del calibro di Kurosawa e Miike, mi trovo in difficoltà.
Sono diversi gli aggettivi che potrebbero descrivere questo libro: onesto, crudo, esplicito malinconico, profondo, asfissiante, sensazionale. Alla fine, ho scelto “nudo”. Perché questo è un libro nudo, di una nudità palpitante, non raffinata ma naturale. Una nudità fatta di pelle e carne, odori e secrezioni, pianti e gemiti. Un libro che ci ricorda che noi non siamo noi, ma siamo quello che esperienziamo tramite i corpi che abitiamo. Un libro che testimonia come l’occhio onnipresente di una società soffocante possa torcere quei corpi e le menti che li abitano; lo fa tramite il punto di vista di cinque personaggi. Un giovane adolescente che tramite il sesso scopre prima l’amore e poi il lutto della perdita. Una donna che usa il proprio sesso come unica arma contro una società che vorrebbe usare il suo corpo come fosse una macchina. Una giovane adolescente rinchiusa in una gabbia di mansuetudine e carineria. Un giovane uomo lanciato nel tritacarne sociale che è il mondo dello studio e del lavoro giapponese, sospinto dal desiderio di fuggire da un passato di povertà. Una donna che dirige una piccola clinica ostetrica, forse il lavoro più importante al mondo, quello di garantire la nascita di bambini sani, costretta a lottare ogni giorno per il proprio lavoro e la propria famiglia.
Cinque narrazioni che permettono all’autrice, in poco più di trecento pagine, di tagliare come un rasoio la società del Giappone, paese dalle meraviglie contraddittorie, portando alla luce povertà, lavoro, solitudine, bullismo, abuso, violenza, revenge porn, sette religiose che predicano la fine del mondo.
Lo stile di narrazione di Misumi Kubo si adatta al racconto. Uno stile a tratti crudo, fatto di riflessioni più che di dialoghi, di pensieri più che paesaggi. Uno stile che racconta la propria poesia tramite i propri personaggi, protagonisti e comprimari; persone reali e non macchiette o stereotipi, al contempo meschine e magnanime, in una parola: normali. Una narrazione che non si concentra su picchi di scrittura brillante, dimostrando però, qui e là, che sarebbe tranquillamente in grado di farlo. Un libro dal ritmo placido, come l’ondeggiare di un fiume, che non si priva di sguardi all’indietro ma prosegue sempre in avanti; che preferisce la solidità della narrazione ai facili colpi di scena. Un libro dalla lettura scorrevole, che lascia ai propri temi il compito di impegnarvi. Potreste finirlo in un giorno come in sei mesi.
Una storia agrodolce, perché è proprio in quei corpi di tutti quei cittadini che formano quell’abnorme società che tutto osserva, è proprio in quella carne e in quella pelle che l’autrice individua la consolazione tanto necessaria ai protagonisti. Sia tramite il sesso, l’amore, l’affetto, la speranza o il gesto concreto quanto simbolico di portare alla luce una nuova vita, un futuro c’è sempre. Una speranza rimane per coloro in grado di proseguire, seppure piangendo come neonati.
Un libro che parla al Sottosuolo, in grado di mettervi a contatto col vostro corpo, adatto a chi vuole riflettere, per chi apprezza la malinconia che non cede alla disperazione. Si consiglia di leggerlo in periodi che permettono, successivamente alla lettura, almeno una mezz’oretta di riflessione.
Paride Fiorini